martedì 9 settembre 2008

Le favolette che ci raccontiamo



Da bambina ho ricevuto una educazione cattolica. Battesimo e comunione, la cresima l’ho evitata. In Chiesa dopo la comunione non sono andata spesso, mi annoiavo, ma nel profondo credevo in Dio ed in tutte le cose che ti raccontano. Credevo in un paradiso, me lo immaginavo (come tutti, penso)con nuvole soffici, l’uomo barbuto e benevole e tutte le persone che avevo conosciuto e a cui avevo voluto bene, o che non avevo mai conosciuto, come i miei nonni. Pensavo che in paradiso ci finissero anche le mie tartarughine, i miei pesci rossi, i miei uccellini, perché non potevo pensare che un Dio non permettesse a qualcuna delle sue creature di entrare in paradiso. Crescendo ho messo in discussione la Chiesa come istituzione. Non mi piaceva quello che dicevano i preti, non condividevo i loro divieti, il loro bigottismo, ma credevo ancora in un Dio unico. Con gli anni, ho rivalutato anche questa cosa e mi sono data la mia personalissima opinione in merito, partendo dal principio che le religioni sono nate, secondo me, per assoggettare i popoli e le loro menti, puntando sulla paura più grande che ha l’uomo, quella della morte.
L’uomo ha paura di morire, gli si racconta la favoletta della vita “giusta” che ha come premio la vita dopo la morte (paradiso, reincarnazione etc etc, in base alle varie religioni) ed in questo modo lo si guida e lo si tiene, in un certo senso, sotto controllo.
Certamente è un discorso fatto per sommi capi ed è solo il sunto delle mie riflessioni, ma il senso è quello.
Dunque io mi ero creata la mia favoletta per rassicurarmi, ma allo stesso tempo non essere schiava di religioni.

Mi ero detta : cosa mi spaventa di più di tutto?
La morte.
Ma la mia morte?

Eh no, perché quando sono morta è tutto finito, al massimo mi può far paura il momento del trapasso, quell’attimo in cui senti la vita che ti scorre via dalle mani, ma qualcuno mi ha detto che in quell’istante si è talmente rincoglioniti da un punto di vista fisiologico, che non ci si rende conto del trapasso, si spegne l’interruttore e basta.
Quindi la paura che mi restava qual era?

La morte dei miei cari, la loro assenza nella mia vita.

Allora mi sono raccontata che noi eravamo fatti di energia.
Questa energia deriva da un’energia cosmica più grande, e che una volta morti saremmo ritornati a far parte di quell’energia, e che poeticamente una volta che una persona a me cara veniva a mancare, ritornando a far parte di quell’energia cosmica l’avrei sentita lo stesso ogni giorno vicina, l’avrei trovata in una farfalla, in un albero, persino in un palo della luce, e mi sarei sentita meno sola. Bene.
Secondo la mia teoria, ciò dovrebbe valere anche per il mio cane. Ecco, posso ufficialmente dire che le mie teorie erano emerite cazzate.
Non lo sento vicino se guardo una farfalla, non lo sento vicino se respiro l’aria, sento solo un immenso vuoto.

E nemmeno i ricordi servono a nulla, non servono a tenere viva la sua presenza vicino a me, anzi servono solo a farmi sentire il grande vuoto che ha lasciato. E se provo questo per un cane ( anche se era un GRAN CANE!), penso con terrore a cosa proverò per altre perdite inevitabili nella mia vita.
Non c’è nulla da fare.
La vita ha un ciclo e quando si conclude, per cause naturali o non, è finita.

Rimanere nei ricordi degli altri, a noi non serve a nulla, perché tanto siamo morti ed a chi resta, i ricordi, servono solo ad accrescere il dolore ed il vuoto incolmabile.
Si si… lo so, serve tempo…
“Il tempo lenisce le ferite”.

Probabilmente è così.
O magari è un’altra favoletta che ci raccontiamo perché non abbiamo le palle di convivere con i nostri dolori.